La procura di Milano ha scoperto che in alcuni stabilimenti del Gruppo Armani venivano sfruttati operai cinesi a basso costo. Gli stabilimenti non erano sotto il controllo diretto del colosso di moda, ma producevano per Armani borse e accessori. Stando alle indagini, gli operai cinesi vivevano nel degrado, erano sottopagati e lavoravano in condizioni pericolose.
Questi stabilimenti, attivi dal 2017, erano in realtà dei laboratori-dormitorio sparsi fra Milano e Bergamo. Qui gli operai cinesi vivevano ammassati in ambienti piccoli e asfittici. Erano costretti a lavorare su turni di quattordici ore, festivi compresi. Pagati in nero, guadagnavano intorno ai due euro l’ora.
Alle condizioni di vita degradanti si aggiungeva una modalità di lavoro pericolosa. I carabinieri hanno scoperto che diversi macchinari erano stati privati di misure di sicurezza per aumentare la rapidità di produzione. Per esempio, dalla macchina incollatrice avevano rimosso l’inserto di plexiglass che impedisce al lavoratore di rimanerci impigliato. La fustellatrice a bandiera non aveva il dispositivo di arresto di emergenza. La macchina da cucire non aveva protezioni per le dita.
Gli operai venivano sfruttati per aumentare il profitto. In questo modo, una borsa venduta nelle boutique Armani per 1800 euro aveva un costo di produzione di appena 90 euro. Una pratica su cui gli inquirenti stanno indagando e di cui i colpevoli dovranno sicuramente rispondere. Ma che dovrebbe anche farci riflettere sull’impatto che la moda può avere in termini ambientali e sociali.