La Norvegia, il 9 gennaio 2024, ha autorizzato il Deep Sea Mining nell’Artico. Questa pratica consiste nell’estrarre minerali e metalli dai fondali marini. Già in uso in Papua Nuova Guinea e in Giappone, si tratterebbe della prima volta nell’Artico. Un’eventualità che gli scienziati, i pescatori e gli ambientalisti cercano di scongiurare da anni, perché molto dannosa per gli ecosistemi marini.
Il governo norvegese vorrebbe praticare Deep Sea Mining in un’area vasta quasi quanto l’Italia. Situata nell’Artico, la zona si estende tra le Svalbard, la Groenlandia, l’Islanda e l’isola di Jan Mayen. Si tratta di uno degli ultimi ecosistemi ancora non intaccati dall’uomo sulla Terra. L’ultimo rifugio sicuro rimasto per la vita marina artica, estremamente vulnerabile e sempre più minacciata dalla crisi climatica.
La decisione della Norvegia potrebbe costituire un punto di non ritorno. Stando agli scienziati, infatti, l’attività mineraria marina può causare danni irreversibili agli oceani. E addirittura interferire con i processi naturali di cattura e immagazzinamento di carbonio. Trasferendo il carbonio nelle profondità marine, gli oceani mitigano l’inquinamento. Questi sono alcuni dei motivi che avevano spinto una serie di Paesi a firmare nel 2023 il Trattato delle Nazioni Unite sugli oceani. Tra loro anche la stessa Norvegia, che appena un anno dopo lo sta ora violando. L’obiettivo del trattato, infatti, è creare delle aree marine libere da ogni tipo di sfruttamento, incluse le estrazioni.
A dispetto del folto gruppo di manifestanti, tra cui tanti giovanissimi, radunatisi fuori dal parlamento il 9 gennaio, la Norvegia ha detto sì. Si tratta, tuttavia, di un verdetto che può ancora essere ribaltato. Le prime licenze di estrazione, infatti, devono ancora essere approvate dal parlamento norvegese. Gli attivisti di Greenpeace, WWF e altre ONG ambientaliste invitano, dunque, le persone a manifestare il proprio dissenso per provare a salvare l’ultimo baluardo incontaminato del pianeta.